Facciamo i conti
La Repubblica fondata sul telefono
di Paolo Madron 30/5/2006
Dai furbetti del quartierino a Calciopoli, è il trionfo della giustizia per intercettazione
Il telefono allunga la vita, recitava in una vecchia pubblicità un comico che ora, passato alla concorrenza, propone di staccare la spina.
Più che allungarla la vita sembra però che l'apparecchio la complichi di brutto, e a un numero di persone che cresce a vista d'occhio. Siamo diventati una repubblica fondata sul virtuale: la politica si fa in televisione, la giustizia sulle intercettazioni che oltre al crimine svelano maschere da commedia dell'arte.
Caso Moggi docet, molti impegnano al telefono la gran parte del loro tempo, profondendo di sé non proprio la parte migliore.
C'è un paese che parla in continuazione, preda di una convulsa logorrea, e qualcuno che ascolta e trascrive, non importa se per ordine della magistratura o per libera iniziativa, obbedendo a un irrefrenabile voyeurismo telematico il cui risultato è la proliferazione di dossier su tutto e tutti. Ultimo episodio quello di una nota azienda, per contrappasso telefonica, il cui capo da presunto mandante sarebbe finito vittima degli spioni, e con lui i suoi cari.
Dall'indefessa attività di ascolto sono emersi tutti gli scandali dell'ultimo periodo, dai furbetti del quartierino di bancario malaffare al calcio farlocco che truccava partite e risultati.
Mentre sono scomparse o relegate al ruolo di strumenti anacronistici la denuncia del reato e la prevenzione frutto dell'attività investigativa. Il paragone fra Tangentopoli e Calciopoli, inevitabile specie dopo che l'ex capo del pool di Mani pulite Francesco Saverio Borrelli è stato chiamato alla guida dell'ufficio indagini della Federcalcio, dimentica però una differenza sostanziale.
Nel primo caso tutto era cominciato dalla denuncia di un imprenditore ribellatosi al sistema di dazione che il finanziamento illecito ai partiti gli imponeva, nel secondo invece la miccia deflagrante è stata la pubblicazione delle intercettazioni.
E non perché l'arbitro Gianluca Paparesta, grottescamente inchiavardato dal suddetto Moggi negli spogliatoi di uno stadio di periferia, si sia rivolto all'autorità competente per denunciare il fatto consentendole così di risalire all'odiosa cupola che governava l'ambiente. Dal quel febbraio 1992, quando scattarono le manette per Mario Chiesa e Tangentopoli prese ufficialmente l'abbrivio, sono passati solo 14 anni, ma sembra un secolo, tanto il costume è cambiato, se non altro perché allora il cellulare era un giocattolo privilegio di pochi e il processo di virtualizzazione del reale lasciava intuire solo un timido inizio.
La giustizia telefonica, similmente all'uso dei pentiti, è strumento in chiaroscuro: sacrosanto per la lotta al crimine, può dare adito a incontrollabili derive mediatico-giustizialiste. Rivela la mancanza di etica e di senso di responsabilità di una classe dirigente che sostituisce l'impunità al rispetto delle regole, ma è anche lo spaccato di una parte della società dal ventre molle, pasticciona, confusa e arrogante. Oltre che un formidabile documento antropologico, anche la testimonianza di una decadenza che trova nel linguaggio delle conversazioni il suo tripudio.
Frasi a metà, sconnesse, dialettismi e strafalcioni lessicali («Se parli male pensi male» diceva in un suo film Nanni Moretti a una saccente giornalista che lo importunava), parolacce come sfoggio di celodurismo, che rimandano a una desolante mancanza di cultura e senso del ridicolo.
Raccolte in sequenza, pagine e pagine di intercettazioni vanno a formare un colossale ipertesto dove si mescolano nomi, fatti, date e allusioni. La figura retorica dominante è quella della costruzione a specchio: una storia che rimanda a un'altra storia, che rimanda a un'altra in una sequenza infinita.
Così, può capitare che intercettando un giovane ma smaliziato procuratore si venga a sapere, oltre che dei suoi maneggi per piazzare i giocatori, di galanti quanto vani tentativi per sedurre un'avvenente presentatrice televisiva che, poveretta, con l'inchiesta in questione non c'entra nulla, ma che ora vi si ritrova sbattuta dentro dall'immaginario collettivo che non va per il sottile e fa di ogni erba un fascio. Personaggi, storie, vezzi e vizi di potenti che si compiacciono di contare molto più di quel che il loro ruolo non direbbe.
Intanto su internet proliferano i siti che spiegano come difendersi dalle intercettazioni, e tutti concludono con il paradosso che solo l'eccesso di informazioni può mandare in tilt i centri di ascolto.
Forse a questo pensava Luciano Moggi, che alla fine le sue 100 mila telefonate avrebbero fiaccato la pazienza di chi le doveva ascoltare.
Fonte
www.panorama.it
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